Qualche pagina per avere un'idea...


                                             CAPITOLO VIII

E’ Pasqua. Che Pasqua.
L’unica resurrezione che vorrei, è quella di mamma naturalmente, senza timore di apparire blasfema.
Al mattino mi sveglio con un’angoscia lacerante.
Vuoto, sgomento, dolore, nostalgia, rimpianto danzano pesantemente intorno al mio letto rubandomi i pochi minuti di sonno reale, in cui trovo un po’ di riposo e conforto e in cui mamma mi appare immancabilmente in sogno.
Continuo a sognarla tutte le notti. Che sollievo.
Di notte siamo sempre insieme, come prima di quest’incubo, lei mi consiglia, mi sta accanto dolcemente e con polso, come lo è stata in tutti i miei anni, mi guida col sorriso e approva le mie scelte.
Quali scelte?
Al momento non ho la lucidità di prendere alcuna decisione, importante o meno. Nulla è rilevante ora, e nessuno.
Altri giorni mi sveglio in confusione totale.
Devo realizzare: è stato tutto un sogno?
Io mia madre non l’ho mai avuta, l’ho solo sognata per quarant’anni e questa invece è la realtà?
Allora preferisco tornare a sognare, rivivere quella dolce visione che è stata la mia esistenza con lei.
La mente umana, questa sconosciuta, ha mille sfaccettature.
Inventa sempre nuovi meccanismi di difesa per recare un po’ di sollievo a questa pena lancinante.
Riavvolgo il film della nostra vita passata, certo che c’era, c’è sempre stata, era reale per fortuna, mi ha messo al mondo e mi è rimasta accanto per quarant’anni. Avrei preferito molti di più, ma non siamo noi a decidere.
Latente mi sale una rabbia livida nei suoi confronti: Perché te ne sei andata? Dovevi rimanere qui con noi. Era un tuo dovere. Poi mi tornano alla mente le sue parole quando morì la cara nonnina ed io ero arrabbiatissima con lei:
<Non è colpa sua, non è stata lei a voler andarsene, non ti ricordi come curava la sua salute? Mangiava solo cibi sani, si riempiva di cavolfiori da quando aveva letto da qualche parte che prevenivano il cancro, ti pare che se fosse dipeso da lei non sarebbe rimasta con noi? A me manca più di te, era mia madre, ma a 84 anni il Signore l’ha rivoluta con sé.
Allora ho compreso. Il mio livore si è smorzato, a modo suo nonnina ha combattuto strenuamente per vivere a lungo.
Mentre mamma no, la sua preoccupazione quotidiana era sì la sua salute ma, come Penelope, di notte distruggeva il prezioso lavoro eseguito.
Tu mi hai fatto il tremendo dispetto di lasciarmi, e io, più infantile di una bimba dell’asilo, per dispetto parto.
Tu non volevi mai che io partissi, cominciavi a simulare malanni e malori appena fiutavi aria di prenotazione.
Neanche alla Madonna di Papeete ti sei inchinata.
Da quando avevo per caso constato che non ti opponevi ai viaggi religiosi-quando andai a Lourdes eri persino contenta- la mia mente criminale partorì la geniale idea di inventare un celebre santuario di devozione mariano, la Madonna di Papeete appunto.
Era una una pietosa creazione immaginaria per simulare un pellegrinaggio alla sua effigie , per combinazione situata in un paradiso terrestre.
 Naturalmente non esiste nessuna Madonna nell'arcipelago della Polinesia anzi, chissà che religione professano laggiù.
Avevi abboccato in quell'occasione, ma per l'ultima volta nonnina è venuta in tuo soccorso, suo malgrado, perché all'ultimo stadio del tumore che ce l'ha rubata, per cui ho desistito volontariamente.
La Polinesia è sempre lì, mia nonna purtroppo no.
 E neanche mia madre.
Con scuse diverse sei riuscita a farmi saltare viaggi da sogno.
Stavolta non ci riuscirai. Con questa magrissima soddisfazione, clicco su last minute e prenoto venti giorni nella mia Miami.
E’ un luogo di cura per me, un centro benessere dove vado a leccarmi le ferite quando una persona cara mi abbandona.
Anche nel 2003, quando è mancata la mia adorata zia Luigina, mi sono rifugiata tra gli allegri colori di Big Mango (in contrapposizione a Big Apple).
Anche allora il dolore era tremendo, inimmaginabile.
Dentro di me mi ripetevo: consideralo un allenamento, un esercizio di lutto per quando morirà mamma, non credo che potrà dispiacermi di più, lo strazio è già al culmine.
Perché io adoravo zia Luigina, negli ultimi due anni della sua esistenza era diventata una seconda mamma per me.
Ma una madre ideale: che non rimprovera e non rompe le scatole, d’altronde per lei io rasentavo la perfezione.
Una volta la pregai:
< Zia, dimmi quando qualcosa non va, non mi fai mai notare se sbaglio>
< Ma tu non sbagli mai!>
Fu la sua rassicurante conclusione, io per lei ero perfetta, mi venerava come una divinità, dimostrandomi il suo infinito affetto in ogni occasione, con i suoi modi da gran signora con un cuore immenso.
D’altra parte questa devozione era reciproca e di pari levatura.
Oltre i miei genitori, è lei la persona che mi ha arricchito di più, in tutti i sensi.
Sorvolando sulla cospicua eredità materiale che mi ha lasciato  cambiandomi la vita, mi ha “dato” così tanto in affetto, sicurezza, stima e fiducia, da spingermi a intraprendere quei passi che avevo sempre sognato e mai osato azzardare.
In quel febbraio gelido e nevoso in cui la zia mi lasciò, pensai che il dolore avesse un limite, che non si potesse soffrire più di tanto. Che il bene sconfinato che nutrivo per zia Luigina fosse pari a quello per mamma.
Mia madre non dava a vederlo, ma in alcuni momenti una punta di gelosia e insicurezza minavano la sua stabilità, anche se apprezzava e incoraggiava la mia assistenza alla zia rimasta sola. A volta assistere alla simbiosi che si era instaurata tra noi, per lei era motivo di fragilità, anche se ben celata.
Invece ora è tutto moltiplicato all’ennesima potenza.
Non c’è limite al dolore.
Un po’ come le lacrime, spuntano sempre di nuovo, anche dopo un pianto dirotto di ore.
Anche l’angoscia non conosce frontiere: sempre più in alto! Come la vecchia pubblicità di Mike Bongiorno per la grappa, o in chiave moderna, no limits!
Ora sono affranta, annientata.
Vorrei solo morire per ricongiungermi a lei, a loro.
E’ senz’altro il periodo peggiore della mi vita, in assoluto.
Le difficoltà pregresse, quelle che tutti siamo costretti ad affrontare nel corso dell’esistenza, sono una passeggiata in confronto.
Quando si spegne la mamma, non è un’altra persona che se ne va, che ti lascia, è una parte di te che muore per sempre.
Come un’amputazione.
Mi sento come se mi avessero reciso un braccio o una gamba, anzi, un intero lato.
Ho la sindrome dell’arto fantasma.
E’ automatico pensare: devo raccontarlo a mamma, dalla notizia importante all’inezia di cui sorridere, forget it, a mamma non posso riferire più nulla.
L’avrei tenuta anche dieci anni, muta, paralizzata, coperta di piaghe costretta in un letto, pur di stringerle la mano e narrarle gli avvenimenti intorno a noi.
Lei avrebbe sorriso, negato con la testa, secondo i casi, comunque ci sarebbe stata e avrebbe compreso.
Ma questo era il mio bene, non il suo.
Sarebbe un gesto di puro egoismo augurare ad una persona, cara o meno, quella pseudo vita.
Forse lei avrebbe accettato la sua condizione, pur di rimanere al nostro fianco ancora un po’.
Ma per un essere umano quella non è vita.
A quel punto bisogna rimettersi nelle mani di Dio, per chi ci crede come me, e pregare.
Non so cosa pregare, Dio come sempre farà la cosa giusta, anche se prima facie non sembrerà tale.
Bisogna avere la forza di lasciar andare le persone, soprattutto quelle care.
Inutile aggrapparsi a quei brandelli di vitalità, fingere  e sperare ancora.
No. Per non rimanere sola, per non perderla, dovrei augurare all’individuo a me più caro al mondo di subire le pene dell’inferno per rimanermi accanto.
E allora vai.
Vai verso un mondo migliore, sono certa che esiste, perché qui stai troppo male ormai, e anche se non ti vedrò più, non potrò toccare la tua ciccia così cara, dovrà confortarmi l’idea non soffri più, che ora te la spassi alla faccia mia, rimasta in questa valle di lacrime, e tu in un luogo meraviglioso al cospetto di Dio. Stammi accanto da lassù, proteggimi e guidami come puoi, anche se senza di te qui per me è tutto tremendo, la vita non ha senso.
Nulla ha più senso.
Non riesco a guardare avanti, a fare progetti, grandi o piccoli.
Per distrarmi medito di cambiare auto. Girare per concessionari, ammirare gli ultimi modelli sul mercato servirà a distrarmi dall’unico pensiero che attanaglia il mio cuore e la mia mente.
Finalmente potrei concedermi l’auto sportiva, quel duetto decappottabile, talmente basso da allungarsi alla guida su cui ti rifiutavi di salire e da cui ti avrei estratto solo col carro attrezzi.
L’avevo quasi prenotata due anni fa la SLK, quando già la vedevo in garage e già avevo promesso a tutti un giro in cabriolet, mi balenò l’illuminazione:
E come si fa a tirar fuori mamma da quei sedili avvolgenti modello chaise long?
Anche Giacomo, mio cugino, il primo sostenitore del coupè, fu costretto a darmi ragione. Dovetti soprassedere, un’altra berlina proprio non mi andava.
Ora potrei prendere anche la Lamborghini.
Se non fosse per il prezzo stratosferico, fuori dalla mia portata, potrei allungarmi alla guida di quel bolide schiacciato, incollato al terreno, senza preoccuparmi se riesci a salire e scendere senza l’intervento della Protezione Civile. Tu mi hai fatto il dispetto di andartene…io ricambio acquistando un bolide pericoloso.
Ma il pensiero non mi consola, dura un paio d’ore l’idea, ma non mi conforta o distrae. Nulla mi allevia il dolore.
Voglio solo mamma. Penso solo a mamma.
Solo un figlio attirerebbe la mia attenzione. Provvedere a un bimbo mi costringerebbe a mettere da parte la mia disperazione e guardare avanti, concentrarmi su di lui.
Ma a parte la mancanza di materia prima, cioè un uomo degno di essere il padre della mia discendenza, concepire adesso, vittima del mio precario equilibrio mentale, sicuramente genererebbe un bambino malato. Il frutto del peccato recherebbe tutti i segni del mio stato attuale. Scherzando sostengo: mi nasce un figlio scemo.
Sono sempre troppo cruda e assoluta nelle conclusioni.
Ma la verità sta nel mezzo, tra il serio e faceto, di sicuro questa procreazione darebbe alla luce un bambino poco equilibrato se sono fortunata, altrimenti affetto da qualche grave patologia.
Mi torna in mente il caso di una collega di mamma, che rimase incinta durante la grave malattia del fratello, il cui epilogo celere e inesorabile fu la morte.
La poverina trascorse mesi interi a piangere al capezzale del fratello che si spegneva mentre la sua pancia cresceva.
Nacque una femminuccia normale, pareva.
A sei anni le diagnosticarono una grave patologia cardiaca, fu costretta al trapianto, e dopo pochi anni di patimenti e odissee di clinica in clinica, morì.
Ci vuole un attimo a mettere in cantiere un bimbo con cui trastullarsi, ma non mi pare corretto che un’anima innocente debba pagare per i gravi problemi sorti prima che lei venisse al mondo, che mostri le stimmate delle disgrazie altrui.
Certo per me sarebbe come rinascere, guardare al futuro  con una prospettiva tersa e brillante innanzi a me, finalmente di vita e non di morte o dolore.
Se un giorno Dio vorrà concedermi la grazia di diventare mamma, spero che la prole giunga in un momento di serenità, che scorga davanti a sé scorci di un futuro soave e sgombro da nubi, a tratti radioso e solo qualche lieve temporale passeggero.
E poi, particolare non indifferente, non sono innamorata di nessuno, dovrei piegarmi, come non ho mai fatto, ad una scelta rimediata, dettata dallo sbandamento del momento?
Avere un uomo al mio fianco per me è optional, non ne avverto proprio la necessità, anzi.
Per me è diecimila volte più frustrante avere accanto l’uomo sbagliato, che essere sola. Almeno così non devo render conto a nessuno, faccio il comodo mio, se ho voglia di partire parto, altrimenti resto a casa senza nessuno che metta il becco nelle mie faccende.
Meglio solo che mal accompagnati, ormai è questo il leit motiv della mia vita, non solo nelle questioni di cuore, ma anche in lavoro, affari e quant’altro.
Anch’io mi innamoro, ci mancherebbe, prendo quelle tramvate travolgenti che mi sconvolgono alcuni mesi.
Poi, approfondendo la conoscenza, emergono i difetti, sia miei che suoi, ma fin’ora i difetti dei miei corteggiatori non erano veniali, non si poteva sorvolare e chiudere un occhio.
Io almeno, a causa della mia educazione religiosa, per instaurare un rapporto duraturo, finalizzato al matrimonio, devo partire convinta al cento per cento, visti i pezzi che si perdono lungo il cammino.
Iniziare già accontentandosi, alla fine non conduce da nessuna parte, la diversità viene a galla e le strade si dividono.
Alcune donne pur di avere un paio di pantaloni in casa, si coprono occhi, orecchie e bocca come le tre scimmiette, e sopportano situazioni aberranti temendo più la solitudine che i maltrattamenti.
Io godo appieno del mio eremitaggio, anche con le amiche non sono appiccicosa, rapporti cordiali, frequenti, ma ognuno a casa sua.
Superati i trent’anni, la consapevolezza maturata mi conduce a cercare meno la compagnia delle persone, e preferire libri da leggere ma soprattutto da scrivere, internet e un buon film.
Ironizzo spesso sui miei trascorsi sentimentali: per me la vita di coppia è come darmi all’ippica. Nel senso che chi non brilla negli sport più impegnativi ripiega sui cavalli. Io ho sempre fallito in amore ma non ho ancora capito su cosa ripiegare…
Quindi è meglio partire.
Controllo la posta elettronica, così stampo i documenti di viaggio, l’e-ticket per Miami.
Tra i tanti messaggi di spamming, ce n’è uno di Scarlet, che strano, non mi scrive da tempo.
Con il suo inglese stentato la mia amica coreana mi informa che è in partenza per le Hawaii, che trascorrerà due mesi di vacanza in quelle isole non così lontane da Seul.
Sono tre anni che non ci vediamo, dall’estate in Florida.
Lei era la mia room-mate, con lei dividevo la camera del college nei mesi trascorsi in America.
E’ una ragazza dolcissima, con quel senso innato di rispetto e devozione caratteristico dei popoli orientali.
Quasi quasi la raggiungo… d’altronde venti giorni a Miami, senza gli altri studenti italiani con cui uscire, solo con teacher Dave, che oltretutto lavora, non volano.
Sì, è meglio spezzare: 4 giorni in Florida, 15 a Honolulu, al ritorno altra sosta di due notti a Big Mango per il grande shopping finale.
Si dice che alle Hawaii i prezzi siano maggiorati del 40 percento rispetto al nuovo continente per i costi di trasporto, vedremo.
Ho deciso: raggiungo Scarlet a Oahu.
Su E-dreams trovo un volo favoloso: Fort Lauderdale-Las Vegas-Honolulu.
Preferisco sempre frazionare il tragitto, dopo otto ore legata a quei sedili da tortura, divento idrofoba.
Intanto avverto gli amici, la partenza è imminente.







                   Un asino che girava una macina fece cento
                   miglia, camminando. Quando fu slegato,
                   trovò che era ancora nello stesso posto.
                   Ci sono uomini che camminano molto e non
                   avanzano affatto. Quando è venuta per loro
                   la sera, essi non hanno visto né città, né villaggio,
                   creatura, natura e potenza e angelo. Invano,
                   i miseri si sono travagliati.

                                     
                                               Vangelo di Filippo
                                                        (Vangeli Apocrifi)
                                              
                           


                  








 
                               CAPITOLO IX
(...)
Alle 22 mi incammino sul viale illuminato, con le vetrine dei negozi di souvenir aperti fino a tardi, i mini market ABC pieni di stranieri intenti a provvedersi di acqua, Pepsi, cioccolato e pellicole fotografiche. Il boulevard di Waikiki beach pullula di artisti di strada, un cieco chiede un’offerta, massaggiatori improvvisati promettono miracoli con la riflessologia plantare e mastodontici turisti americani, calati alla perfezione nella parte con indosso le tipiche camicie floreali di qui, neanche così a buon mercato poi, che ad estati alterne imperversano anche da noi.
I villeggianti sono per lo più nuclei familiari, una sorta di Rimini del Pacifico. Gruppi di 3 o 4 persone, il 65% orientali, passeggiano non con il solito cono gelato come in Italia, ma con in mano porcherie grassissime, di ogni sorta e dimensione, altro che big size.
Noto soprattutto una coppetta di ice cream molto diffusa, quella di Baskin Robbins, che promette ben 31 gusti diversi, un giorno di questi la proverò, vado matta per il gelato. Ci sostituirò il pranzo, adoro farlo anche a casa.
E’ opportuno precisare che io non sono una fissata salutista, che si nutre di sole verdure e vanta una forma fisica perfetta. Anch’io ho i miei 2 o 3 chiletti di troppo, mangerei solo pizza, gelati, patatine e dolci, ma mi trattengo, eccedo solo nelle grandi occasioni o in qualche giornata storta, ma qui non riesco ad abituarmi a questo dissennato modo di ingozzarsi.
Distribuiscono volantini di spettacoli per bambini, dell’uomo che ingoia spade, tiro al bersaglio con pistole vere, ma luoghi di divertimento, nulla.
Sarà che oggi è martedì, di certo per il week end il popolo della notte risorgerà, emergerà dagli anfratti in cui si cela durante la settimana.
Intanto Scarlet mi ha raggiunto sul luogo dell’appuntamento: l’ingresso principale del Royal Hawaiian Shopping Centre.
Optiamo per una passeggiata esplorativa. Vediamo cosa offre la splendida Honolulu in tema di locali e discoteche.
Certo Miami è Miami, qui non esiste il Niky Beach, non chiedo tanto, ma posti sul genere del Crow Bar o Pearl, immagino di si.
Invece pare proprio di no.
L’utenza qui è tutta formato famiglia: la sera a nanna presto e la mattina di buon ora in spiaggia.
Non esiste la serata riservata ai gay come a South Beach, brulicante di omosessuali in cerca di divertimento e vita sfrenata.
Non c’è trippa per gatti. Né per gatte.
Tanto abbiamo superato la trentina, e non abbiamo più l’età per disperarci per questo.
Ci adatteremo allo stile Hawaiano, chill out da ospizio.
Passeggiatina serale, gelatino, mare e promenade sull’erba.
Quasi quasi rimpiango Francavilla. D’altronde ‘sto viale a forza di percorrerlo avanti e indietro ad ogni ora, sta acquisendo un’aria familiare, tra un po’ mi sembrerà Viale Alcione. Le palme sono quelle. Da noi non esistono surfisti, ma per il resto… la noia è quella.
Manca solo Deus, il mastodontico San Bernardo del farmacista, e mi sentirei a casa. D’altra parte immagino che a queste latitudini sia alquanto bizzarro imbattersi in un cane prettamente alpino, in effetti di cagnolini ne ho incrociati pochi, piccoli e spelacchiati, ma senza evidenti tratti orientali, come mi divertivo ad immaginarli per gioco, sarebbe simpatico un cocker dagli occhi a mandorla.
Infatti dopo due giorni Scarlet non fa che ripetere: boring   Hawaii, boring Hawaii.
Per la disperazione lei è andata a visitare le piantagioni di ananas Dole, tipica del luogo.
Io questa me la risparmio, in compenso conosco ogni particolare della grande statua di Duke Kahanamoku, antico campione del mondo di surf nonché nuotatore olimpico.
Ormai anche il monumento, appena mi scorge tra i passanti, mi saluta.
Domani però svolto: vado a perlustrare la mitica Kailua Beach.
La spiaggia dei surfisti, quella piena di onde, quella che appare nei film, quel posto da favola stampato sulle cartoline. Dalla parte opposta di Waikiki, nella zona più ventosa di Oahu, nell’omonima baia. Chissà che meraviglia!
Qui è inutile guardare le previsioni meteo: è come ai caraibi, piove, esce il sole, ripiove e torna il sereno.
Non si fa in tempo ad infilare l’impermeabile che già risplende il solleone; sei in spiaggia ad abbronzarti, inizia a gocciolare, raccogli in fretta le tue cose, ti alzi ed è di nuovo bello.
Se da noi una mattina d’estate piove, è così per almeno due ore, forse il pomeriggio si rimetterà.
Qui invece alterna di continuo, la cruda realtà è che anche sotto la pioggia filtrano raggi che abbronzano, l’ho costatato a mie spese, con la schiena ustionata nonostante l’esposizione intervallata.
Infatti qui le protezioni solari sono ad altissime percentuali, la numero 4 non esiste, tantomeno quella senza filtri.
Ora capisco perché gli autoctoni fanno il bagno con la t-shirt, per ripararsi dal sole. E non solo.
Lo splendido fondale di Waikiki è tutto roccioso, si notano grossi spuntoni emergere tra una duna e l’altra: non importa, in quest’acqua trasparente si scorgono benissimo, praticherò uno slalom accorto tra l’uno e l’altro.
Ma non ho calcolato l’onda malefica, sono tutte così, subdole, che mi butta giù e trascina avanti e indietro in questo mezzo  metro d’acqua che copre la riva.
Solo che lo strato di sabbia è effimero, cioè svanisce alla prima ondata e spuntano come squali queste rocce sporgenti e ruvide.
Pare di essere su una grattugia, il mare è una immensa mano che mi spinge su e giù, mentre sotto il fondo, a prima vista innocuo, svela a mie spese tutte le asperità, costringendomi ad uscire sanguinante.
Ho delle lievi escoriazioni sulle gambe, sotto le ginocchia, perdo sangue da un piede, appena un po’, mi sciacquo con quest’acqua salata e limpida, e ripiego sul bagnasciuga.
Non è nulla, figuriamoci se mi ferma qualche goccia rossa.
Comunque ho imparato la lezione, non si può stare a riva, bisogna bypassarla a nuoto o con la tavola verso il largo dove anche se arriva il flutto possente, non si gratta il fondo.
Non troppo al largo però, mi grida un lifeguard, torna un po’ indietro, lì ci sono gli squali.
Che a Francavilla non è ancora tempo di bagni, altrimenti era meglio che rimanevo lì, nella solita spiaggia dove scendo da quarant’anni, conosco ogni sasso e ogni pertugio e nessuno rompe le scatole, venti ore di volo e non ho diritto neanche  a due bracciate in pace, che ingiustizia!
Più a sud c’è una zona delimitata, vi sguazzano bimbi aggrappati alle ciambelle. Sì qui è meglio, è come una piscina nell’oceano, e il fondale e sabbioso e basta.
Però è noioso nuotare in mezzo metro d’acqua, questo è l’unico sport che mi viene naturale, per cui vorrei godermi una puntatina al largo. Neanche quella, che stress!
Riguadagnare la riva non è semplice come sembra: gli  alti strati di sabbia bagnata paiono sabbie mobili, tiri fuori un piede e sprofonda l’altro.
Una pesante turista americana, piuttosto anziana, è da dieci minuti che si dibatte carponi sul bagnasciuga, tentando invano di alzarsi. Tutti la osservano, nessuno sogna lontanamente di aiutarla.
Mi alzo e mi dirigo verso di lei, quando finalmente Trudy di Gambadilegno trova il guizzo giusto e torna in posizione eretta.
Ora ripensandoci è stata proprio una scena comica, poverina.
Mi volto, mi viene da ridere.
Gli altri tornano stancamente chi al proprio libro, chi al cruciverba o all’MP3. Mentre io continuo a ridere.
Sotto la fresca fila di palme che funge da ombrelloni, distesi sui teli variopinti, distanti solo una spanna l’uno dall’altro, ognuno è intento ad ottimizzare la vacanza. Abbronzatura selvaggia, scenografici castelli di sabbia alla mercé delle onde e dei bimbi, letture impegnate o meno.
Proprio davanti si distingue nella massa un ragazzo sulla ventina, con uno zaino verde militare simile alle tasche di Eta Beta, da cui questo globe trotter yankee estrae e ripone l’impensabile.
Ora deve essere assalito da un certo languore, perché tira fuori una busta di pane in cassetta americano, del tipo integrale, quello con le fette così morbide e porose che puntualmente si spezzano in mano. L’unico modo per renderle passabili, è tostarle nei mitici tostapane a scatto di tanti film a stelle e strisce.
Si vede che ne è pratico, le maneggia con destrezza: ne dispone una su un supporto di fortuna e con un paio di forbici,  a mo di lama di coltello, inizia a spalmarci sopra l’inverosimile.
Dapprima uno strato di burro di arachidi, poi marmellata di frutti di bosco e per concludere una colata di miele millefiori.
Le persone intorno, evidentemente non americane, manifestano apertamente sui volti nauseati il loro disgusto, mentre lui serafico e appagato assicura:
< Good good, very good! Vuoi assaggiare? >
 Chiede al nuovo amico appena conosciuto, offrendogliene una fetta. L’ Hawaiano rifiuta educatamente asserendo che la moglie lo attende a casa per il brunch, a me pare proprio una scusa educata.
Io oggi, in barba alla dieta, mi concedo una puntatine al Kentucky Fried  Chicken.
Mentre assaporo con avidità le stracariche cosce di pollo dorate e fritte, noto che la giovane donna seduta di fronte a me mi osserva con curiosità, pare proprio che stia pensando: però questa tipa, con tutto ciò che si strafoga non è poi così grassa!
La signora ignora, come me d’altronde, che l’unto volatile fritto mi si impiomberà sullo stomaco, costringendomi a saltare cena e colazione seguenti.
In conclusione ho assunto meno calorie di un regime dietetico.
Lo adotterò d’ora in poi, porcherie a pranzo, nulla la sera e la mattina, è anche economico, chissà come mi ridurrò?
Per contorno ho scelto incautamente puré di patate. E’ gradevole, ma al primo assaggio mi assale un ricordo proustiano: il puré di Villa Aranci. Non che io lo mangiassi, ma ogni sera i vassoi delle vicine di mamma contenevano immancabilmente questa portata, e l’odore si diffondeva in tutta la camera confondendosi con quelli di disinfettante e urina, altrettanto persistenti.
Scanso da parte le mashed potatos, mi è impossibile mandarle giù.
Proseguo la mia perlustrazione dell’isola, ormai conosco ogni negozietto, ogni sasso e ogni fontanella nei dintorni dell’albergo.
Inizia ad imbrunire, qui d’altronde si cena presto, e alle 20 c’è già in strada il primo passeggio di pensionati in camicia d’ordinanza.
Accampato davanti al centro commerciale c’è un cartomante con un insolito mazzo di tarocchi.
Me li mostra gentilmente, sono un incrocio tra quelli classici di Marsiglia e altri giapponesi mai visti prima.
Mi invita a consulto- tanto va ad offerta libera- mi rassicura, incuriosita mi accomodo a gambe incrociate, rincuorata dalla certezza che non mi estorcerà un capitale.
Come sempre le previsioni sono grandiose: tutto bene, tutti i problemi si risolveranno- non vedo come possa risolversi la morte della mamma- soldi, amore, felicità e successo.
Voglio crederci. Certo se avesse annunciato un incidente aereo sulla via del ritorno, ci sarebbe stato da ridere!
Mi appunto il nome delle 72 carte: Tarocchi Ukiyoe Deck.
Qui non si vendono, mi informa, li cercherò su internet delle meraviglie.
L’improvvisato cartomante ha lontane origini italiane: la nonna era siciliana, emigrata alle Hawaii, sposata con un orientale, e con una discendenza strano incrocio europeo-asiatico.
La mamma del tizio intorno alla cinquantina, ha avuto il primo figlio a 39 anni e si è fermata solo a 47 anni, dopo il quinto. Me lo racconta per consolarmi vista la mia preoccupazione per la sua infausta predizione che mi vede madre a 43 anni. Accetto con il beneficio di inventario, tanto è solo un giro di carte.
Comunque mi delinea una discrezione precisa e dettagliata del carattere di mia sorella, ora all’altro capo del mondo.
Puntuale e corrispondente in toto, sottolineando che è l’esatto contrario di me.
Verso le 22 si raggiunge il clou dello struscio: tutta vita, mi pare Villa Arzilla!
Consumo ancora un po’ il selciato di questo viale che ormai mi è familiare quanto viale Alcione di Francavilla, è meglio tacere le imprecazioni interiori, sono le 11 e mestamente vado a dormire.
Il mattino seguente scendo nell’internet point dell’ostello adiacente il mio albergo.
Per risparmiare avevo preso in considerazione l’idea dell’ostello, ma dopo aver visitato le cosiddette camere, più simili a pollai, nel senso di più adatte ad ospitare galline che esseri umani, per giunta con il bagno in comune, ha scartato immediatamente l’infelice pensiero.
Entro nella saletta, cerco con lo sguardo una postazione libera e mi ci dirigo.
Un ragazzo sulla ventina, seduto vicino ad un giapponese, mi saluta: ciao!
< Ciao >-rispondo- < Come hai capito che sono Italiana se non ho detto una parola? >
L’ho capito appena ti ho vista, dagli abiti, dai lineamenti, insomma si intuisce.>
E’ proprio così, ovunque vada, in circostanze fuorvianti e inimmaginabili mi sento apostrofare: Ciao Italiana!
Chiacchiero un po’ col giovane siciliano alla disperata ricerca di un volo per scappare da Honolulu.
< Sono in America da otto mesi, ho lavorato come cuoco in California e mi divertivo da matti. Mi sono detto: perché non fare un salto alle Hawaii, chissà che favola! E invece sono qui da una settimana e non vedo l’ora di fuggire. Immaginavo surf, ragazze vita selvaggia e divertimento, invece sono finito nel posto più tranquillo del mondo. Ora penso di andare in Canada, ci sono problemi col visto, ma appena li risolvo evado da questo ospizio-galera!>
< Come ti capisco, anch’io vorrei ripartire, ma mi rimane ancora una settimana! Sai a Miami ora quante potrei combinarne, non avrei un attimo di pace, too busy, come mi prendeva in giro Scarlet quando eravamo al College >
< Non ti invidio proprio!> mi incoraggia lui, annodandosi la folta coda di capelli lucidi e corvini, mentre torna ad immergersi nel web.
Anch’io consulto le pagine che mi interessano, lo saluto e vado via.
Ma dove vado? Dove potrei sfuggire quest'angoscia che mi segue incollata come un esattore delle tasse e resettare per  un momento soltanto il mio cervello e smettere di pensare a mamma?
Se da un lato i ricordi degli attimi felici con lei mi inducono al sorriso, il contrappasso è che mi costringono a riflettere e constatare  amaramente che quei momenti non torneranno più, che lei non torna più.
Come quella domenica di vent'anni fa, quando eravamo dal benzinaio e non si capiva se era in funzione l'automatico o se invece il servizio venisse svolto dal personale.
Io e Anna scrutavamo intorno per scorgere un addetto alle pompe, ma non si notava segno di vita.
Mamma, seduta sul sedile posteriore della mitica Panda rossa, iniziò ad intercalare:
< Ecco, ride e non viene, guardate... sorride ma mica si alza!>
< Ma chi?>
chiedemmo meravigliate Anna ed io, visti i paraggi deserti.
< Quel ragazzotto seduto lì>
ed indicò in direzione di una poltroncina da bar di colore rosso, scolorito dalle piogge.
< Mamma, ma solo tu lo vedi, non c'è anima viva in giro!>
esclamammo in coro noi due.
< Ma come! Quel ragazzo con i ricci neri, seduto accanto al distributore!>
Osservammo meglio e ad una attenta analisi intuimmo a cosa si riferisse:
< Quel giovane lì sulla sedia?>
< Si finalmente, proprio lui!>
< Ah mà, ma quello è Alberto Tomba, non lo riconosci?>
< Tomba?>
< Sì, e neanche in persona, non vedi che è una pubblicità?! Quella è una sagoma di cartone poggiata sulla poltrona, hai voglia ad aspettare che venga!>
noi sorelle avevamo le lacrime agli occhi per il ridere, io che guidavo dovetti attendere qualche minuto per ricompormi prima di mettere in moto, mentre mamma chiosava:
< Vi prego, non ditelo a nessuno!>
< Seh, come ci pensi, oggi siamo ospiti da zia Luigina e lo racconteremo a tutti!>
< In effetti mi pareva un viso conosciuto, ma mi stava dando i nervi con quel sorrisetto sornione e senza  muovere un passo>
< Grazie, un cartellone che cammina!>
e giù risate per 20 chilometri.

                                                 CAPITOLO X

Stamattina coronerò un sogno della mia vita: sfiderò le onde sul surf.
Noleggio la tavola in uno dei numerosi stand in successione sulla spiaggia.
I Beach Boys impartiscono lezioni a riva ai giapponesi alle prime armi.
Rubo con gli occhi i rudimenti osservando attentamente le posizioni e i consigli elargiti a peso d’oro ai tre allievi.
In dieci minuti i due ragazzi e la ragazza sono già in acqua, li seguo tentando di imitare e carpire altri suggerimenti preziosi.
Sulla sabbia era semplicissimo, in acqua per niente.
Mi distendo sul surf  e con agili bracciate raggiungo il punto in cui si forma l’onda.
Bisogna stare a debita distanza dagli altri surfisti, poiché alla prima ondata finiremmo tutti in un pericolo groviglio, non troppo al largo sempre per via degli squali, ma neanche troppo a riva per non finire sulle rocce.
Incoraggiante.
Il sole picchia, infatti molti indossano la t-shirt, io come al solito no.
Scopro che rimanere in equilibrio sulla tavola, in posizione prona mica in piedi, è già alquanto difficoltoso, il mare sballottala di qua e di là e qualche novella surfista come me, cade in acqua pesantemente.
Io resisto, mi aggrappo forte alle estremità anteriori e cerco di bilanciarmi.
Sono dieci minuti che sono entrata e già avverto la fatica.
Noto che le onde non sono in successione immediata, trascorrono diversi minuti tra l’una e l’altra.
Infatti si familiarizza nell’attesa, anche qui la fauna è eterogenea: simpatiche ragazze occidentali sotto la trentina che mi sorridono salutandomi, Hi!
< Hi > rispondo con un sorriso.
Un tipo strano tutto vestito di nero, non in muta, ma con fuseau e maglietta e un cappello da cow boy in tinta, pare nato sulla tavola, cavalca l’onda migliore fino a riva.
Perché bisogna anche riconoscerla quella giusta. Non sono tutte buone da cavalcare le ondate.
Da lontano pare un ragazzino, un enfant prodige del surf. Osservandolo meglio appare piuttosto anziano, sopra i 60 anni, si intuisce dai baffi grigi, vanta però l’elasticità di un ventenne.
E’ piccolo e minuto, non parla con nessuno, segue solo il linguaggio del mare.
Più in là ci sono i tipici surfisti delle pubblicità: belli, abbronzati e muscolosi.
Sono solo attenti all’onda, non si distraggono in cerca di facili acchiappi.
 O meglio, con uno sguardo hanno già valutato l’offerta del giorno: nessuna surfista da urlo, né per bellezza, né per doti atletiche.
Tutte donne più che normali, quindi inutile perdersi una giornata da favola in acqua dietro a prede comunissime.
Anzi, è già tanto che non mi scambiano per una foca monaca alla deriva, vista al totale aderenza del mio corpo incollato alla tavola.
Al  prossimo ondeggiare mi alzo e tento di surfare almeno per cinque secondi. Facile a dirsi.
Provo a mettermi in ginocchio a carponi sul surf, la posizione base per guizzare in piedi al momento giusto.
Se l’asse in vetroresina non si muovesse. Ma si muove, eccome, anche veloce, quindi se non intendo darmi un’altra grattugiata e pasturare i pesci di tutta Waikiki, è meglio che recuperi l’unica postura in cui eccello: saldata pancia in giù alla tavola, e il materiale da saldare non manca…
Con aria indifferente torno come un criminale sul luogo del delitto, in attesa della marea giusta.
Si avvicinano a turno un paio di giovanotti a caccia di pollastrelle. Con la coda dell’occhio li osservo: senza infamia e senza lode. Cioè meglio perderli che trovarli.
<Hi, how are you?> Mi chiede ammiccando
< Sorry, i don’t speak english> rispondo con l’aria più gentile e naturale che mi riesce, in un’interpretazione da Oscar.
< What’s a pity, bye!> conclude il tizio
<Bye> lo saluto io, sempre con l’espressione da santarellina.
D’altronde è il metodo più semplice ed efficace per tenere alla larga i seccatori.
Certo se uno dei surfisti sopra menzionati, al secondo sguardo si accorgesse che non sono un tricheco svenuto, ma una quarantenne ancora passabile, allora sfodererei il miglior inglese a me possibile, e senza pressarlo in alcun modo, limitandomi a non fuggire, abboccherei al suo amo.
Pia illusione. E’ meglio che mi tenga stretta alla tavola senza correre dietro a pericolosi voli pindarici e trovarmi catapultata sotto un’onda con il duro attrezzo sportivo per copricapo.
Guardo l’orologio, l’ora a mia disposizione è trascorsa, proprio adesso che iniziavo a tenermi a galla.
Potrei riprovarci domani. Ma chi me lo fa fare? Era solo uno sfizio che desideravo togliermi da un pezzo, ho realizzato questo piccolo sogno d’infanzia e rovinarmi la già non splendida vacanza per apprendere uno sport da noi impraticabile, mi pare inutile.
Quando mi conviene ragiono con lucidità, traggo conclusioni geniali.
Mi consolo osservando i giapponesi alle prime armi come me, neanche loro se la spassano tanto.
Comunque, domani è un altro giorno.
Per non perdere la sana abitudine di stare in orizzontale, mi stendo un po’ a prendere il sole.
Noto in lontananza, all’orizzonte, un’isola accanto alle altre: - che strano- constato tra me e me- quell’atollo ieri non c’era! Mah, mi sarò sbagliata, forse avevo osservato distrattamente-.
Dopo mezz’ora di cottura al microonde riapro gli occhi e l’isolotto si è spostato.
Allora non mi sbagliavo, ieri non c’era.
L’unica deduzione plausibile è che si tratti di una nave cargo: ne ho viste più d’una durante i miei viaggi, ma una mastodontica al pari di un vulcano, mai.
Da lontano si confonde con le altre terre dell’arcipelago. Pare un block di New York, 3 o 4 grattacieli uniti, indescrivibile.
D’altronde qui arriva tutto ma proprio tutto via mare, per cui è naturale che siano attrezzati al meglio, ottimizzando i costi.
Dopo una mattinata così emozionante, densa di eventi, da segnare in rosso sul calendario, raccolgo le mie cianfrusaglie e mi riavvio verso l’hotel.
Dovessero farmi male tutte ‘ste sensazioni nuove, dopo una settimana di encefalogramma piatto, il picco potrebbe essermi fatale.
Il lungomare è dotato a tratti di pensiline sotto cui rinfrescarsi, con tavolini in cemento e sedili inamovibili, occupati 24 ore su 24 da frotte di homeless sudati e barbuti che hanno eletto a loro dimora questo paradiso.
Si aiutano mutuevolmente, con i loro mezzi arrangiati, e sviluppano attenzioni maniacali verso le esigue bagattelle di risulta che custodiscono gelosamente come reliquie.
Il Comune di Honolulu sta cercando a questi senzatetto una sistemazione più consona, in una zona non turistica, per nascondere il problema agli occhi del mondo.
A me non danno fastidio, non deturpano il paesaggio, sono inoffensivi, non mi pare che costituiscano un pericolo anzi, sono suggestivi.
Non so quante persone condividano la mia opinione.
Al primo impatto sono un pugno in un occhio, ma poi diventano parte integrante della eclettica cornice hawaiana.
Mi fermo a scuotere la sabbia dai miei sandali, e mi giunge il chiacchierio di due anziane signore davanti a me.
Parlano italiano!
In dieci giorni di vacanza ho scovato 2 italiani finalmente, mi sentivo sola.
Ormai gli italici spuntano come colonie di funghi in ogni luogo più o meno sperduto, e qui neanche l’ombra.
Questo da solo sarebbe un buon motivo per svernare alle Hawaii.
Le canute nonnette mostrano evidente accento del nord, Veneto mi pare di intendere.
Si illuminano a vicenda sui nomi delle strade e sul percorso da prendere per tornare in albergo.
Più che aiutarsi si confondono l’un l’altra.
Il loro guazzabuglio di strade e idee le condurrà esattamente dalla parte opposta di dove intendono andare.
Vorrei aiutarle, intervenire indicando loro la retta via.
 Ma mica sono Gesù Cristo.
Visto che allungheranno solo di poche centinaia di metri la loro passeggiata, per una volta mi faccio i fatti miei, non mi intrometto, d'altronde penserebbero che stavo origliando i loro discorsi…quandomai, lungi da me l’idea.
Sì, sembrerebbe proprio che mi attardavo nel mondare le mie estremità inferiori per ascoltare la loro conversazione privata.
Dato che non è così- non dicevano nulla di interessante- offro di me l’immagine di persona riservata e discreta, che solo agli antipodi mi riesce, e proseguo per la mia strada.
Tutt’al più tarderanno un po’ per il pranzo, che vuoi che sia, il buffet sarà già stato assaltato dalle cavallette, ma qualche briciola rimarrà loro.
Scarlet mi ha invitato per domani ad un pic-nic non ho capito dove.
Le chiedo cosa preferisce che porti, mi intima di non preoccuparmi di nulla, preparerà lei uno splendido pranzo al sacco di ricette coreane.
Ho già i brividi, quando a Miami mangiava in camere quelle specialità brodose dall’olezzo nauseante, ero costretta  a disinfestare la stanza prima di pernottarvi,pareva di essere alla sagra dell’aglio. Proprio a me che non lo tollero affatto.
Vabbè, l’amica si riconosce nei momenti duri, ne ho assaggiate tante di porcherie in vita mia, qualcuna in più non mi ammazzerà.
Come quella sera in college che cuore d’oro Scarlet mi offrì un the orientale fatto da lei.
L’odore era nauseabondo: sarà stato a base di rafano o di chissà quale altra radice di quelle parti, e non ebbi proprio il coraggio di assaggiarne una goccia.
Ma non potevo offendere la mia dolcissima amica, sempre così premurosa nei miei riguardi.
Al primo attimo di sua disattenzione, versai il “prezioso” contenuto del bicchiere nel lavandino, per esclamare alcuni secondi dopo:
<Good, very good, thank you very much Scarlet, il tuo the era gradevolissimo!>
Lo ritengo un peccato veniale, meno grave certo di mostrare scarso apprezzamento o disgusto per la gentile offerta della mia ospite.
Si vede che domani farò un po’ di dieta, piluccherò alghe, tofu e seitan mostrando di apprezzarli, sopporterò stoicamente il languore poi, appena salutata la compagnia, carne arrosto e gelato a volontà.
Sarà perché ho peccato, perché dentro di me ho cercato tutti i pretesti per declinare l’invito di Scarlet, che Dio mi ha punito.
Stamattina non riesco a scendere dal letto, ho una febbre da cavallo.
Se avessi un termometro la misurerei, ma nelle mie condizioni e soprattutto nel mio inglese, spiegare alla receptionist di cosa ho bisogno, ossia di un termometro e non so proprio come si dica qui, chissà pure se lo adoperano, se prendono mai l’influenza.
Sì anche loro si ammalano è vero e poi esportano il virus, Cinese, febbre gialla. Meglio evitare contatti non si sa mai.
E poi, anche il pirometro sarà in gradi Farenhait? Quindi se segna novanta non è grave, o sì? Do i numeri…
Comunque la mia fronte è rovente come il fornello del  ristorante di Heinz Beck, un uovo al tegamino troverebbe la temperatura ottimale per cuocere a fuoco lento, da gran gourmet.
Mica sono Padre Pio, che si ristabiliva perfettamente dopo attacchi di febbre a 45 gradi.
A testimonianza  della sua esistenza miracolosa, i medici che lo ebbero in cura attestarono lo stupore generale dopo aver accertato, con un termometro da cavallo, perché quelli per esseri umani scoppiavano uno dietro l’altro, che lo stato termico si assestava a 45 gradi. Dopo una notte di deliquio e sudori, l’ormai Santo si riprendeva in poche ore e tornava alle sue opere divine senza mai smettere di recitare il Rosario, stringendo tra le mani piagate la scura coroncina. Arrivava a inanellare 10-15 Santi Rosari al giorno, in perenne simbiosi con l’Altissimo.
Con enorme rammarico mi tocca avvertire la cara Scarlet -che tenerezza mi fa- che ho la febbre.
<What’s fever?> ribatte lei alle mie parole.
Saturday night fever, you know? Mi sa di no, è troppo giovane e troppo ad est per ricordarsi la febbre di John Travolta che anziché stenderlo a letto come me, lo inchiodava sulla pista da ballo a quadrati multicolori con i suoi pantaloni bianchi a zampa di elefante e il colletto della camicia scura dai pizzi lunghi e morbidi.
Inutile addentrarsi in un ginepraio, dovesse intendere che Travolta viene con noi al pic-nic.
Tento con parole mie di spiegare alla mia amica che sono malata, ma non da morire, almeno credo.
E spero. La traslazione della salma dalle Hawaii fino in Abruzzo costerebbe una tombola, la povera Anna sarebbe costretta a vendere quantomeno un garage per affrontare la spesa.
D’altronde sono aggiornatissima sui prezzi del caro estinto, non ci si fa mancare nulla in famiglia: ogni 2 o 3 anni ci lascia un parente stretto.
Dal 2000 in poi è un’ecatombe.
Se il nuovo millennio si annuncia di questo tenore, preferisco tornare al Medio Evo.
Oppure dovrebbero cremarmi, raccogliere le mie ceneri in  un vaso, anche un vasetto vista l’altezza, e spedirlo in forma anonima e certamente più economica a casa.
Chissà come si suggestionerebbe il postino sapendo che quell’innocuo pacchetto che ha tenuto sotto braccio tutta la mattina, sino ad alcuni giorni prima era la signorina Chiara Rossi.
Do ancora i numeri, si vede che il febbrone non mi molla. Tanto vinco io.
Rimango a letto, da bere sono fornita, dispongo di varie bottigliette d’acqua e nel frigobar ho lasciato un Philadelphia all’ananas, rivoltante in assoluto, non perché non sto bene.
Ho anche altri snack, ma la dieta preventiva programmata per i cibi coreani, ora mi è imposta dal vago senso di nausea proprio della malattia.
In un caso o nell’altro, ‘sta nausea oggi doveva proprio venirmi, me lo sentivo…inizio ad essere chiaroveggente!
Alternando veglia e sonno, tv e cartoline, giunge la notte.
E con lei i miei sogni struggenti.
La meraviglia, al risveglio dopo la fase onorica monotematica, è l'aver riascoltato la voce di mamma.
Di notte lei è sanissima, più di prima della malattia, in forma, ride, scherza e chiacchiera come ha sempre fatto, di più credo non sia possibile.
Mi torna in mente quel pomeriggio, dopo pranzo, in cui andai a sdraiarmi accanto a lei, nel letto matrimoniale, per schiacciare un pisolino.
Non ricordo il motivo, visto che evito accuratamente il sonnellino pomeridiano che mi altera i bioritmi.
Credo che quella mattina fossi stata costretta ad una levataccia per ragioni che ora mi sfuggono, e al mio lamento di essere intontita lei, materna e comprensiva come sempre, distesa con l'immancabile settimanale femminile in una mano, sussurrava mentre con l'altra mi accarezzava:
< Sì tesoro fatti un bel sonnetto, io non ti disturbo, leggo un po' la rivista.>
Più volte mi aveva confidato che si incantava nel guardarmi dormire, mi spiava avidamente come una ladra di segreti, perché a detta sua e di qualche amica che mi hanno visto addormentata, nel sonno torno bambina, mi si distendono i lineamenti e assumo un' espressione beata.
< Come stai bene, somigli a quando eri piccola, mi sembri la bimba che cullavo tra le braccia con affetto!>
< Sì grazie mamma, quanto sei cara, però adesso vorrei riposare>
< Ehh! Anch'io mi farei un sonetto di 14 versi in rima di otto endecasillabi!>
Esclamò con voce assonata ma in tono divertente e canzonatorio che subito scatenò la nostra ilarità.
Più notava che ridevo, più si eccitava proseguendo la pseudo lezione:
< Oh sì, un bel sonetto di due quartine e due terzine in metrica, ma dormi, riposati tu, io non ci riesco.
Ça va sans dir che quel pomeriggio non riuscii a chiudere occhio, mentre lei sfoderava tutto il suo repertorio di allegra pazzerella, nonché stimatissima e preparatissima professoressa di Italiano e grammatica, come sempre approfittando di ogni momento utile, che allora erano tanti, per stare al mio fianco e condividere tutto, persino il sonno.
Da quel dolcissimo giorno in casa Rossi il pisolino post prandiale viene liricamente definito “Sonetto”.
< Ora mi concedo un sonetto di venti minuti> è il nostro modo di accomiatarci dal soggiorno e rifugiarci in camera.

                                                  XIV  CAPITOLO

Non riesco a guardare avanti. Non intravedo prospettive.
Siamo rimaste io e Anna e dopo di noi il diluvio.
Devo vendere tutta l’argenteria, quadri tappeti e porcellane.
Il corredo principesco che mamma e nonnina avevano pedantemente accumulato per me durante la mia infanzia, l’ho regalato alle suore.
Le sante donne hanno un centro di accoglienza per ragazze madri, brave ragazze abbandonate dai fidanzati e che prima o poi incontrano un nuovo amore e convolano a nozze.
Sarà di certo più utile a loro.
Sistemeranno almeno tre mammine con tutte le lenzuola e coperte all’uncinetto che strabordano dai miei armadi.
La simpatica e premurosa serva del Signore suor Penelope ringrazia me e il buon Dio.
< Ma è ancora tanto giovane perché rinuncia a tutto?>
< Madre, saranno di certo più utili a voi che a me, io vivo in una casa piccola e non saprei dove mettere tutta questa biancheria >
< Ma non è detto che rimarrà sola per sempre!>
< Se capiterà provvederò, intanto è sicuro che a voi fanno più comodo>
< O buon Dio o buon Dio, grazie grazie!>
< Chiedo solo una preghiera, ricordatevi di me nelle vostre suppliche!>
< Ma certo, certo, anche se lei è già in grazia di Dio>
Non rispondo, ma mi sento lontana da Dio e dal mondo, spero solo abbia ragione suor Penelope.
Nei miei progetti questo momento era posticipato di 10 anni.
Quando mamma avrebbe avuto intorno agli ottant’anni, avrei iniziato a preoccuparmi dell’eredità, dell’equa spartizione di oggetti pregiati tra me e la mia unica sorella.
Ora devo liberarmene. Non lasciare questo impiccio a chi verrà dopo di me, cioè nessuno.
Non ci sono discendenti, la famiglia Rossi si estingue con noi, e non desidero affatto che a chi spetterà l’ingrato compito di liberare i nostri immobili lanci improperi alla nostra memoria, sommerso da cianfrusaglie tanto raffinate quanto scomode e ingombranti.
Venderò tutto. Solo quando sarò costretta a prendere il cappuccino nelle tazze della raccolta punti del supermercato mi sentirò realizzata.
Neanche un bicchiere in più esigo nei miei stipetti. Per non parlare di piattini, cucchiaini e salsiere.
Ora penso: è tutto mio! Ma non provo nessuna soddisfazione nel possedere il tutto.
Sarebbe stato mio anche tra 10 anni e con un sapore certamente meno amaro.
Via tutto come nei saldi internazionali: everything must go.
Anch’io vorrei andare, ma dove?
Per ora farò un giro in bici per rilassare i nervi, poi si vedrà.
Il percorso obbligato mi costringe a passare davanti al caffè Franchi che, come al solito, pullula di di teste canute pendant con le nuvole di meringhe sui tavolini.
Ma non avete nulla di meglio da fare brutte carampane? Voi qui e mia madre morta? Vi pare giusto?
Immancabile e sola si distingue la Pimpirillina.
La cioccolata calda le scioglie il rossetto, non abbaglia più, dovrà rimediare prima di alzarsi, altrimenti per strada senza catarifrangenti può essere pericoloso.
Nottetempo verrò a sabotare le invitanti poltroncine di Franchi.
Domani una marea di femori rotti, un'ecatombe con me che me la rido sotto i baffi.
Sono cattiva. Non lo sono mai stata in vita mia, ora me ne compiaccio: morte alle settantenni, solo Erode mi batte!
Traggo l'amara conclusione che lì per lì i pensieri malvagi mi appagano, mi riempiono l'animo apportandomi cinque minuti di sollievo.
Cinque minuti al giorno sono pochi però, bisogna migliorare il primato, allenarsi a fondo.
E' Ferragosto, ed io mi sento come una persona scampata a un disastro.
Un violento terremoto ha colpito la mia esistenza, intorno a me solo macerie e nessun segno di ripresa, di vita.
 Polvere, cocci rotti e aria polverosa, densa.
Mi aggiro come un fantasma tra i calcinacci: rovisto, scavo come uno sciacallo, cerco ma non trovo.
Ho perso il bandolo della matassa, non c'è un filo di Arianna a condurmi all'uscita di questo labirinto di cui dopo mesi non intravvedo la fine.
Ogni notte poi, i sogni mi confondono ancor più le idee, già poco chiare.
Stanotte ho sognato che mamma era resuscitata.
Risorta proprio come Gesù Cristo.
Io, Anna e gli altri parenti festeggiavamo l'evento con immensa gioia e la vita riprendeva il suo corso naturale.
Quello spezzato senza remissione di colpe dal maledetto ictus.
Al risveglio il dolore si riacutizza, riacquista il sopravvento.
Il contatto con la dura realtà fa sì che io tiri solo avanti.
Non progetto e non immagino nulla per me e il mio futuro, mi limito a coprire le 12 ore nel modo meno angosciante e pensare: passa oggi che viene domani.
Di sicuro un figlio mi costringerebbe a farmi forza, a scrollarmi per occuparmi degnamente di lui.
Ma ora come sempre, più di sempre i rapporti sentimentali non ingranano e non resistono.
Ammetto di essere intrattabile, poco comprensiva, mi assumo tutte le colpe, anche quelle che non ho, tanto gli uomini hanno sempre ragione loro, che sia vero o no.
Io sono come un cellulare dalla batteria scarica, devo ricaricarmi, ho sempre scovato in me le risorse per riuscirci e sarò costretta a farlo anche stavolta.
Sono delicata da maneggiare come un vaso di cristallo,
d'altronde come ogni persona che ha subito una grave perdita.
Ora comprendo il significato del vestirsi a lutto: le vedove soprattutto erano solite indossare per un anno o tutta la vita, abiti neri e solo neri.
O il bottone di velluto in tinta, alquanto rozzo, che gli uomini di basso ceto appuntavano al petto.
E' un segnale, un simbolo per avvisare chi entra in contatto con il total black di accostarsi con circospezione, con adeguato tatto perché l'interlocutore ha difese ed energie sottoterra, oltre ai parenti, e quindi di trattarlo con la delicatezza richiesta per non stenderlo definitivamente.
E' un po' come la grossa P che i principianti  devono affiggere ben in vista sul retro dell'auto, per avvisare gli altri automobilisti del possibile pericolo indotto dalla loro inesperienza.
Sarà che io non segnalo il mio lutto in alcun modo attraverso l'abbigliamento, non ho riscontrato premure particolari da parte di chi poteva comprendere.
Solo l'espressione triste e truce del mio volto avverte i miei avventori abituali che la pena non si affievolisce, il dolore persiste, le cose non migliorano: cave canem, beware the dog, non abbaio ma mordo.
Ogni tanto per strada mi si arresta il respiro: qualche sagoma in lontananza mi pare quella di mamma.
Trattengo il fiato, mi blocco, evito ogni movimento brusco.
Se è una visione che duri il più a lungo possibile.
Se fosse lei... magari fosse lei.
Poi al dunque sono sempre donne lontane anni luce da mamma: rozze, brutte o proprio anziane. E immagino lei che esclamerebbe con voce piccata:
<Come ti viene in mente che somiglio a quella lì,così brutta sono?>
<No assolutamente, ma da lontano con l'impermeabile simile poteva ingannare!>
<Ah be'>
Cosa darei per vedermela comparire davanti, come accade spesso in vita che ci si incontra per strada, specie in una piccola città.
Come quella volta che ci eravamo sentite al telefono la seconda delle 4 o 5 volte in cui mi chiamava ogni giorno, e le avevo esposto a grandi linee i vaghi progetti per il pomeriggio:
<Forse andrò dal parrucchiere, non so ancora, oppure a Pescara>.
Il tempo inclemente mi impedì di passeggiare tra le vetrine sfavillanti del centro, così ripiegai sulla messa in piega.
Mentre ero intenta ad ampliare la mia già vasta cultura di gossip sulle riviste del salone, la parrucchiera indicando fuori la porta richiama la mia attenzione notando:
<E' arrivata tua madre>
Mi volto piuttosto meravigliata, interrogandomi dentro di me:
'sta pettegolona come fa a sapere dove mi trovo?
Provai, lo ammetto, un leggero senso di fastidio, di ingerenza, quasi soffocamento.
Mamma mi rammentò che le avevo accennato al telefono della possibilità di trovarmi lì.
Quella volta colsi la sua comparsa come una leggera invadenza, un po' molesta in quel frangente.
 Però era solo il suo desiderio di trascorrere ogni minuto utile con me, specie da quando non vivevamo più sotto lo stesso tetto.
Ora non so che darei per vedermela manifestarsi in tutta la sua ciccia, per toccare anche solo un minuto la sua pelle così familiare, liscia come un velluto. Mentre il suo profumo è sempre con me, mi basta chiudere gli occhi e riesco a percepirlo o immaginarlo sempre. Venderei l'anima al diavolo per darle un ennesimo bacio sulle guance sudate, col solito fondotinta che cola, applicato in modo pedestre come solo a lei riusciva, a mò di maschera dipinta sul volto, con lo stacco tra viso e collo ben marcato.
Le prenderei la mano e non la lascerei più, la tratterrei con la forza e se non ci riuscissi allora la pregherei: portami con te, non separiamoci più.
A volte mi capita di assistere a piccole discussioni dei miei amici con le rispettive mamme o anche per strada, madre e figli che alzano il tono e ogni volta sono tentata o se sono in confidenza li avverto con rammarico:
< Goditela ora tua madre, anche se predica e rompe, perché io chissà cosa darei per riaverla un attimo anche solo per litigare con lei!>
Comprendo ora che non si deve rovinare nessun momento con le persone veramente care per delle stupide inezie, mentre bisognerebbe rallegrarsi di ogni istante trascorso con loro.
Intanto la mia mutazione genetica prosegue, sono ogni giorno più cattiva.
Scannerizzo ogni presunta settantenne in cui mi imbatto per strada e concludo: quanto è rozza, è piena di rughe, si esprime male, ha le vene varicose e altre insulse sottigliezze volte a consolarmi, se possibile.
Mentre la mia splendida e adorata mammina nel suo caotico disordine madido di sudore esprimeva sempre un suo quid. Quantomeno per me che l'amavo.
Dovrei avere uno scopo almeno nell'immediato, per risollevarmi da questa melma in cui giaccio inerte.
Di buoni propositi non me ne viene nessuno.
Solo ammazzare un'arzilla vecchietta placherebbe la mia rabbia.
D'altronde chi mi vieta di farlo?
La Legge? Le Istituzioni? No, solo la mia coscienza.
Ma ora è tutto azzerato, soprattutto l'anima candida che mi ha distinto finora.
Ecco quale sarà la mia nuova ragione di vita nel breve periodo: il piano perfetto per eliminare dalla faccia della terra un'innocente e inconsapevole anziana signora, con l'unica colpa di vivere a Francavilla.
Non sono pratica del mestiere: come procederò?
Soffocandola? Occorre parecchia forza fisica e un luogo deserto, dove nessuno avverta le pur flebili urla.
Con una lama affilata? Un buco nel petto, dritto fino al cuore ed è fatta. Poi via a gambe levate.
La pistola non ce l'ho e neanche il porto d'armi, l'iter è troppo lungo, ormai ci sono dentro, non posso aspettare.
Comunque, nonostante i piani criminogeni e criminali continuo ad andare a messa ed accostarmi ai sacramenti.
D'altronde i capi usurai e altri banditi arcinoti del luogo, la domenica mattina sono sempre i primi e più puntuali ad inginocchiarsi a mani giunte davanti all'altare.
Lo spunto, l'idea vincente me la suggerisce proprio il Prete, non padre Mario il confessore, ma Padre Nicola il celebrante.
< Preghiamo per la nostra sorella defunta Giovanna, oggi ricorre il trigesimo dalla sua dipartita. La ricordiamo insieme ad un mese dal suo incidente. Ci mancherà questa vispa nonnetta con i suoi occhi ancora azzurrissimi dietro gli occhialetti leggeri e con il vezzo delle labbra scarlatte alla sua veneranda età...>
Oddio! E' lei la Pimpirillina, è morta!
Constato trasalendo dentro di me.
< La povera signora è stata investita sulle strisce pedonali da un'auto e pochi giorni dopo ci ha lasciati per tornare alla casa del Padre>
Allora i miei accidenti hanno funzionato. Tutte le maledizioni che inviavo al suo indirizzo ogni volta che varcava la soglia del caffè Franchi, non sono cadute nel vuoto...però... mi compiaccio!
E allora sia: di investimento ucciderò.
Ormai è entrato ottobre e visti gli scarsi miglioramenti, mia distrazione e terapia saranno la progettazione e messa a punto del piano omicida.
Percorro in bici Viale Alcione per non generare sospetti, semmai qualcuno potesse lontanamente immaginare i miei   loschi intenti, per studiare il tratto più adatto al mio  finto incidente.
Il punto ideale è e rimane il Taix: almeno una volta l'anno ci scappa il morto, a piedi o in motorino, per la scarsa visibilità o velocità sostenuta.
Io unirei le due cause e il risultato sarà assicurato.
Troppo banale. Esigo apporre la firma al mio capolavoro in uno spazio vergine, tutto mio, con un unico mazzo di fiori a perenne memoria del misfatto.
Vicino casa mi piacerebbe, conosco ogni anfratto, ma troppi occhi amici e indiscreti sarebbero gli ignari testimoni della mia
assurda follia.
La rotonda dell'Asterope è troppo frequentata a qualsiasi ora, sarebbe un'ecatombe, più che vecchiette colpirei bambini, e non sono impazzita sino a tal punto.
Anzi, in quel caso mi suiciderei, amo troppo i bimbi e non vorrei ferirli in alcun modo.
Non rimane che la farmacia.
 D'altronde è fonte sicura col suo andirivieni di anziane intente ad acquistare medicine, del tutto superflue dopo il mio passaggio.
Anzi, se mi dice bene, ne acchiappo due in un sol colpo. Sì ho trovato, fingerò di perdere il controllo dell'Audi proprio davanti allo stretto piazzale del farmacista.
Mi sento già più rilassata, una parte del piano è già a punto.
Passo a fare un po' di spesa e torno a casa, oggi ho concluso parecchio.







                                     
                                      Non stanchiamoci di fare il bene,
                                      se infatti non desistiamo, a suo
                                      tempo mieteremo.
                                      Poiché dunque ne abbiamo
                                      l'occasione, operiamo il bene
                                      verso tutti, soprattutto verso
                                      i fratelli nella fede.
                                     




                                                    CAPITOLO XV    

Novembre. Le foglie sono già cadute copiose, come i miei capelli indeboliti che invadono il pavimento chiaro e si contano ad uno ad uno per terra.
Comunque me ne rimangono sempre una moltitudine in testa, si rigenerano quotidianamente, quasi.
Saranno i cattivi pensieri a spingerli a proliferare come particelle radioattive, a riempirmi il capo di malvagità e ciocche castane.
In questa condizione rarefatta, in bilico tra lucidità e follia, mi sento come se da lungo tempo io e mamma giocassimo a nascondino.
Io cerco e lei si acquatta da qualche parte per sbucare al momento opportuno e farmi tana.
Sono mesi che conto. Con il braccio contro il muro e la testa poggiata sopra, ad occhi chiusi.
< Basta mamma, esci hai vinto, non ho più voglia di giocare!>
Solo che si è nascosta troppo bene e non sbuca più.
D'altronde lo ripetevi sempre tu:
<Lo scherzo è bello quando dura poco!>
E ora? Si è protratto troppo, vieni fuori.
Ricominciamo daccapo.
Mi manca tutto di lei. La rivorrei con tutta la sua ciccia e i suoi difetti infantili. Mi manca poterle riferire un banale episodio che le avrei narrato in ogni particolare:
< Sai mamma, oggi ho incontrato quella tua vecchia amica che si è trasferita fuori, è sempre in gamba, si difende bene, arzilla e scattante: ma quanti anni ha?>
....